Eleonora Pimentel Fonseca
Il re Ferdinando IV e la regina Maria Carolina
vollero che
fra
i giustiziati del 1799 vi fossero anche due donne: la Pimentel
Fonseca e la Sanfelice. Eleonora
Pimentel Fonseca
s'impose alla stima generale non soltanto per la sua singolare purezza di
costumi, ma anche per il suo ingegno straordinario e per la sua vastissima
cultura.Essa nacque a Roma il 13 gennaio 1752 dai portoghesi Clemente
e Caterina Lopez.
Nel 1760, si recò con la sua famiglia, a Napoli. E in questa città
non tardò a sbalordire gli amici e i conoscenti per la sua eccezionale precocità
intellettuale. Basti dire che, a sedici anni, essa conosceva già varie lingue,
fra cui quella latina e quella greca, e componeva versi latini e italiani.La Pimentel fece parte di diverse accademie, fra le quali quella
dei Filateti e dell'Arcadia. Un ammiratore della sua poesia fu
Pietro Metastasio. Questi
sin dall'ottobre del 1770, scrisse una lettera di lodi e
d'incoraggiamento alla giovane poetessa. A venticinque anni, Eleonora sposò
un ufficiale dell'esercito napoletano, tal Pasquale Tria de Solis.
Da questa unione nacque un bambino che morì a due anni. Per la perdita della
sua creaturina, la Pimentel
scrisse cinque sonetti, in cui manifestò tutto lo strazio del suo cuore
materno. Tra quei sonetti, vi è uno che, più degli altri, è singolarmente
commovente. La sventurata donna dice che, spesso, mentre essa piange, vede
apparire all'improvviso il suo bimbo. Allora a lei pare di tenerlo ancora vivo,
vicino a sé. Ma ben presto l'illusione svanisce, determinando un nuovo e
disperato dolore.
Sola
fra miei pensier sovente i' seggio
e gli occhi gravi a lagrimar m'inchino
quand'ecco in mezzo al pianto, a me vicino
improvviso apparir il figlio i' veggio.
Egli
scherza, io lo guato, e in lui vagheggio
gli usati vezzi e il volto alabastrino;
ma, come certa son del suo destino,
non credo agli occhi, e palpito ed ondeggio.
Ed ora
la mano stendo, or la ritiro,
e accendersi e tremar mi sento il petto,
finché il sangue agitato al cor rifugge.
La dolce
visione allor se'n fugge;
e senza ch'abbia dell'error diletto,
la mia perdita vera ognor sospiro.
Vincenzo
Cuoco ha giustamente
scritto che, in questa donna, " la poesia formava una piccola parte
delle tante cognizioni che l'adornavano ". La Pimentel,
infatti, studiò matematica, fisica, chimica, botanica, mineralogia, astronomia,
economia e diritto pubblico. Scrisse un libro di carattere finanziario, e
tradusse dal latino e commentò la classica dissertazione storico-legale di
Nicolò Caravita: " Niun
diritto compete al Sommo Pontefice sul Regno di Napoli ". Data la sua
predilezione per gli studi di economia e di diritto pubblico, approfondì
soprattutto le opere di Gaetano
Filangieri, di Mario Pagano,
di Giuseppe
Maria Galanti e di Giuseppe
Palmieri. Scoppiata la
rivoluzione francese, ne accolse con entusiasmo le idee. Nel tempo stesso mutò
la sua opinione e il suo atteggiamento nei riguardi dei sovrani di Napoli.
Sino al 1790 esaltò Ferdinando
IV e Maria Carolina. Questa esaltazione ebbe inizio nel 1768; in
tale anno, infatti, ella compose per le nozze dei sovrani un epitalamio dal
titolo: " Il tempio della gloria ". Negli anni successivi dedicò
un sonetto alla regina per il parto della seconda figlia e scrisse una cantata
dal titolo: " La nascita d'Orfeo " per il parto del primo
figlio maschio della coppia regale. Non mancò, infine, di comporre un sonetto,
in cui fece le più alte lodi al re, per la fondazione e la legislazione della
colonia di San Leucio. Tale devozione alla corte finì con l'essere
premiata; il re, avendo saputo che questa poetessa era separata dal marito e
viveva in ristrettezze economiche, le fece assegnare un sussidio mensile. In
seguito allo scoppio della rivoluzione francese, i regnanti credettero opportuno
di mutare politica, arrestando il movimento delle riforme e battendo la via
della reazione. Allora la Pimentel passò
all'opposizione diventando una fervente giacobina. Caduta in sospetto della
polizia, venne arrestata il 5 ottobre 1798, e condotta nella prigione
della Vicaria.
Fu liberata verso la metà di gennaio del 1799, allorché i lazzaroni
insorsero, aprendo le carceri da cui uscirono delinquenti comuni e prigionieri
politici. Appena riacquistata la libertà fece parte, insieme con altri
giacobini, di quel Comitato centrale, che, riunitosi in casa dell'avvocato Nicola
Fasulo, decise d'indurre
il generale Championnet
ad affrettare la sua avanzata su Napoli, per porre fine alla sanguinosa
anarchia della plebe. Il 20 gennaio, alla testa di parecchie donne, la Pimentel
entrò nel castello di S. Elmo.
Due giorni dopo, i patrioti piantarono, nella sottostante piazza, l'albero della
libertà e, tra i colpi di cannone, dichiararono decaduta la dinastia borbonica
e proclamarono la Repubblica Napoletana una e indivisibile, sotto la protezione
della " grande nazione francese ". In quell'occasione, la Pimentel
declamò, fra vivissimi applausi, l' " Inno alla libertà ", da
lei scritto a S.
Elmo. La Pimentel
aveva anche il dono dell'eloquenza e partecipò varie volte ai dibattiti nella
" Sala d'istruzione pubblica " parlando sempre di libertà. Ma
la gloria della Pimentel
Fonseca è legata alla
creazione del suo famoso giornale : il " Monitore napoletano ",
che si pubblicava due volte alla settimana, il martedì e il sabato.
Complessivamente uscirono, dal 2 febbraio all' 8 giugno,
trentacinque numeri e in ogni numero la Pimentel
dimostrò di essere una grande giornalista. In questo singolare giornale, venne
mirabilmente sintetizzato e commentato tutto ciò che, nel campo governativo e
legislativo, ebbe luogo a Napoli durante i cinque mesi di vita della
Repubblica. La Pimentel
mirò soprattutto ad elevare il tono morale del popolo napoletano " viziato
da tanti secoli di assurdo sistema politico e dalla recente corruzione di un
governo il più profondamente corrotto di tutti i governi dispotici ".
Tutto ciò che era nobile, alto ed eroico venne esaltato ed ebbe
l'incondizionato appoggio della Pimentel
Fonseca.
Nel maggio 1799 l'esercito francese, agli ordini del generale Macdonald,
si allontanò da Napoli per recarsi nell'Italia settentrionale. I
patrioti rimasero allora in balìa di se stessi. Ma, secondo la Pimentel,
non bisognava disperare. Era quello il momento di " dar saggio di forza
e di volontà " alla Francia
e all'Europa.
Negli ultimi numeri del Monitore, la Pimentel
finì col rivelare il suo ardente desiderio di realizzare l'unità della Nazione
con " la potenza del braccio " della gioventù italiana.
La regina Maria
Carolina seguì
attentamente il Monitore napoletano facendosi prestare i numeri da lady
Hamilton. Caduta la
Repubblica, la Pimentel
venne arrestata. Stette per oltre un mese prigioniera, insieme con altri
repubblicani, in una delle navi che si trovavano nel golfo di Napoli.
Passò poi nelle carceri della Vicaria.
Il 17 agosto la giunta di Stato la condannò a morte mediante
capestro. Eleonora
chiese di essere decapitata anziché impiccata, ma la giunta respinse la
domanda. L'esecuzione ebbe luogo il 20 agosto alle due del pomeriggio in piazza
del Mercato, gremita
d'immensa folla di popolo e circondata da numerose truppe di fanteria e da due
reggimenti di cavalleria. In quel giorno furono giustiziati otto condannati
politici; due di essi vennero decapitati: il principe Giuliano Colonna
e il duca Gennaro
Serra; gli altri sei, fra
cui Eleonora,
il vescovo di Vico Equense
Michele Natale e il
sacerdote Nicola Pacifico, furono impiccati.
Vincenzo Cuoco
ha detto che Eleonora,
prima di salire sul patibolo, bevve il caffé e pronunciò il famoso verso di Virgilio
: " Forsan et haec olim meminisse juvabit ". Il Nardini,
a sua volta, ha affermato che il popolo cercò invano di costringere la donna a
gridare : " Viva il re ". Degli otto condannati, la Pimentel
fu l'ultima e prima di porgere il collo al boia sentì il dovere di salutare i
suoi compagni già morti. Il corpo della Pimentel
fu sepolto nella chiesa
di S. Maria di Costantinopoli,
ma prima della sepoltura, il cadavere venne, per una giornata intera, lasciato
penzoloni, a ludibrio della plebaglia. Fu questa l'ultima ed atroce offesa
recata ad una delle donne più intelligenti, più colte e più pure del 18°
secolo.