Enrico Caruso

Enrico Caruso
nacque a Napoli il 25 febbraio 1873 in via Santi Giovanni e Paolo (più nota, a Napoli, con il nome di San Giovanniello), numero 7.
 Il padre si chiamava Marcellino, la madre Anna Baldini. Erano originari di Piedimonte d'Alife (oggi Piedimonte Matese in provincia di Caserta), dove s'erano sposati il 21 agosto 1866 e da dove erano partiti per Napoli in cerca di lavoro.  Enrico nacque dopo sette anni di matrimonio e, sembra, ma non si sa se fosse vero o no, che sia venuto alla luce dopo tanti fratellini nati morti. Su questo figlio si divisero le speranze e le aspirazioni di papà e mamma Caruso. Il primo avrebbe voluto che continuasse il suo mestiere di meccanico; la seconda lo avrebbe voluto istruito. S'incontrarono a metà strada. A dieci anni, il padre lo piazzò quale apprendista nella fonderia di don Salvatore De Luca all'Arenaccia e lui, per far contenta la madre, dopo le elementari, frequentò una scuola serale dove ebbe la possibilità di sviluppare una vera passione: quella del disegno. Fu, infatti, un eccellente caricaturista dove non figurava soltanto la versatilità nel disegno ma ancora di più la capacità di afferrare e far risaltare la psicologia dei personaggi ritratti.
Valgano per tutti quella di Toscanini dove, in una successione di quattro figure, parte da un orecchio (il famoso orecchio assoluto di Toscanini nella percezione dei suoni)per arrivare al ritratto del Maestro e quella di Guglielmo Marconi appeso per le orecchie a formare un ponte radio tra due tralicci di antenne . Enrico cresceva e, senza saperlo, incominciava a venir fuori qualcosa che avrebbe cambiato radicalmente la sua vita: la voce.
Cantava sul lavoro per la delizia dei suoi compagni. Un canto spontaneo, senza tecnica, ma sufficiente per farlo, man mano, entrare nel giro dei cantanti di chiesa. Dalle chiese ai salotti della Napoli borghese per quelle serate di musica, canti e balli che venivano chiamate "Periodiche" in virtù della periodicità dell'avvenimento, alle terrazze a mare degli stabilimenti balneari per allietare le giornate dei bagnanti, alle serenate per conto di innamorati o per festeggiare onomastici.
Così, dopo il disegno, l'altra scoperta: il canto.
Una volta che si rese conto di questa nuova opportunità di lavoro incominciò ad avere maggiori ambizioni. Ambiva fare il salto di qualità: passare dalle esibizioni spicciole, che abbiamo visto, alle recite nei teatri. Ma per muovere i primi passi nel mondo del teatro d'opera era necessario prendere lezioni di canto, perché la sua voce, bella ma esile, andava educata. E qui si manifesta tutto il carattere di questo napoletano fuori dai cliché. Nessuna improvvisazione, nessuna superficialità ma una decisione, una risolutezza, una puntigliosità e una assiduità nello studio che lo accompagneranno fino alla fine facendo di lui il più grande di tutti i tempi. Da allora ad oggi! Lo scugnizzo di San Giovanniello diventerà il signore del bel canto.
Un amico lo presentò al maestro Guglielmo Vergine che quando lo sentì rimase molto sconcertato, innanzitutto perché quella voce benché flebile non era ben definita per timbro e colore, cioè non era chiaro se si trattava di baritono o di tenore, per la verità questo dilemma lo perseguiterà per anni.  Qualche progresso nello studio vi fu tanto che il Maestro pur di realizzare qualcosa in virtù di quel contratto lo segnalò con insistenza, elogiandolo, forse oltre i reali meriti di allora, al giornalista Nicola Dàspuro che in quel momento rappresentava a Napoli l'editore Sonzogno. Fu così che il giovane tenore fu scritturato per la "Mignon" di Thomas che si dava al Teatro Fondo di Napoli, oggi Teatro Mercadante. Ma alle prove, prima del debutto, si dimostrò tanto incerto e impreparato da essere licenziato su due piedi. Un altro fiasco avvenne al San Carlo, si vede che questo teatro doveva essergli fatale. Venne scritturato per sostituire, nel "Faust" di Gounod, un tenore che si era ammalato, ma quando venne il momento di cantare la romanza "Salve dimora, casta e pura" fu preso da una paura tale che non gli riuscì di arrivare al termine. Inutile dire che se ne tornò a casa un po' scornato. Ma non si avvilì, anzi furono, queste, lezioni salutari. Capì che non si poteva improvvisare e che avrebbe dovuto affrontare con serietà gli studi necessari. Così fu. Restò ancora per poco con il maestro Vergine. Di tanto in tanto gli capitava di incontrarsi con il maestro Vincenzo Lombardi, maestro preparatore di spartiti, che non gli lesinava consigli. Questi, dopo il Vergine, fu forse l'unico insegnante di canto che Caruso ascoltò più frequentemente. Consigli ne ebbe addirittura da Umberto Giordano quando si accinse a cantare le sue opere. Poi cominciò, da solo, a capire la sua voce, a correggere i suoi difetti, a provare e riprovare, e, come suol dirsi, a mettersi bene in gola le note, specialmente quelle più ostiche, a curare il passaggio, a cercare gli acuti, a farsi il repertorio. Il suo primo vero debutto avvenne nel 1895, a soli vent'anni, con un'opera ricordata forse solo perché segnò l'inizio della carriera del più grande tenore di tutti i tempi. Quest'opera si chiamava "L'amico Francesco". Era di un napoletano piuttosto benestante che spendeva di suo per veder rappresentate le sue opere. Ma quell'anno non viene ricordato solo per quell'avvenimento, perché Caruso iniziò davvero il suo cammino con opere che rappresentavano il meglio di ogni cartellone.
Cantò il "Faust", la "Cavalleria rusticana", il "Rigoletto", "La Traviata",  la "Gioconda". Era fatta! Il 1897 è l'anno in cui incomincia a risalire la penisola verso teatri di più radicate tradizioni. E' a Livorno per cantare "La Bohème" di Puccini. Va a Milano ma non ancora alla Scala, bensì al Teatro Lirico. E' il 27 di novembre, data da ricordare perché partecipa ad una prima in assoluto di un'opera che si affermerà come capolavoro: "L'Arlesiana" di Cilea. Non sarà, questa, però, l'unica opera che Caruso terrà a battesimo le quali successivamente si affermeranno tanto da essere tuttora presenti in tutte le stagioni teatrali. Nel 1898 sarà il primo Loris nella "Fedora" di Umberto Giordano. Nel 1901 "Le Maschere" di Mascagni. Nel 1902 la "Germania" di Franchetti e "Adriana Lecouvreur" di Cilea. Nel 1910 "La Fanciulla del West" di Puccini. Altre date significative nella carriera di Caruso sono il 1898, quando varcherà, per la prima volta, l'oceano per recarsi in Sud America al Colon di Buenos Aires. Nel 1899 è a San Pietroburgo.
 Il 1900 segnerà il suo debutto alla Scala con la "Bohème" di Puccini sotto la direzione di Arturo Toscanini. Il 1902 è l'anno in cui Caruso inciderà i primi dischi per conto della Gramophone and Typewriter Company. Continuerà ad incidere fino al 1920. I dischi di Caruso ebbero un successo enorme. In quel tempo non esisteva la manifestazione di attribuzione del disco d'oro perché, se fosse esistita, il primo disco d'oro sarebbe stato appannaggio di Caruso visto che il suo "E lucean le stelle" dalla "Tosca" di Puccini superò abbondantemente il milione di copie.  
 Nel 1903 fa il suo ingresso trionfale al Metropolitan di New York. Due anni prima, però, aveva dovuto patire la sua più grande delusione: il debutto al San Carlo di Napoli, la sua città, dove avrebbe voluto la sua consacrazione e dove aveva inteso, a suo modo, dare il meglio di sé. Fu scelta "L'Elisir d'Amore" con la quale, alla Scala di Milano, direttore Toscanini, aveva ottenuto un trionfo personale di pubblico che aveva preteso, e costretto Toscanini, a concedere il bis della celebre romanza "Una furtiva lacrima". Ma Napoli aveva già un idolo: Fernando De Lucia, tenore di grazia, come usava dire allora. Il canto di Caruso era altra cosa. Forse senza saperlo stava trasformando un'epoca. Non fu capito. Per la verità il pubblico si divise tra carusiani e fans di De Lucia, ma quello che l'amareggiò fu l'atteggiamento della critica e in particolare la presa di posizione del critico del Pungolo, il barone Saverio Procida, tanto da fargli giurare che non avrebbe mai più cantato a Napoli. Mantenne il giuramento, ma non dimenticò mai di essere napoletano. Allegro, simpatico, generoso. Pretendeva fior di dollari per cantare nei salotti di ricchi americani, ma era capace di cantare, gratis, per ore, canzoni napoletane per allietare gli emigranti. La prima canzone incisa su disco fu "Mamma mia che vò sapè", versi di Ferdinando Russo e musica di Emanuele Nutile. In una delle sue venute a Napoli (a Napoli non cantò più, ma ci venne continuamente) andò al Borgo Sant'Antonio Abate, 15 per abbracciare il Nutile che viveva poveramente e per lasciargli un bel gruzzolo di soldi. Il legame con Napoli non fu mai reciso e a Napoli volle venire, dopo la grave malattia, per ritemprasi e riprendere il suo lavoro. Ma la sorte volle che quella fosse anche l'ultima. La sua vita iniziata a Napoli a Napoli finì. Era il 2 agosto 1921. Aveva 48 anni. Enrico Caruso giaceva in una stanza dell'Hotel Vesuvio. Non sarebbe più andato via dalla sua città. A 75 anni dalla morte, l'8 giugno 1996, a Napoli, gli veniva intitolata una scuola: l'Istituto Tecnico Commerciale Enrico Caruso in via Arenaccia 246. Il suo quartiere d'origine.