San Domenico Maggiore
Piazza San Domenico
Fra il 1283 ed il 1324
i Domenicani, i quali qui si erano stabiliti occupando un convento che era stato
prima dei Basiliani e poi dei Benedettini, ricostruirono la loro casa madre
demolendo le vecchie strutture delle quali conservarono soltanto la precedente
chiesa di S.
Angelo incorporandola
nella nuova costruzione. L'appoggio degli Angioini prima e via via delle varie
dinastie regnanti, permise ai Domenicani di realizzare, con un continuo
programma di rifacimenti, uno dei complessi monastici più vasti e più ricchi
della città, sede della prima università napoletana. Questa stratificazione
secolare è evidenziata già nella facciata, nella cui impaginazione si
individuano i vari momenti costruttivi della fabbrica. Il bel portale
trecentesco, formato da fasce marmoree policrome, è chiuso, infatti, fra due
cappelle rinascimentali sporgenti sulla facciata ed è coperto da un pronao
costruito nel '700 nel tentativo di riorganizzare spazialmente questa
commistione di forme. Nella parete superiore della facciata il Travaglini
nell'Ottocento aprì una bifora durante il suo discutibile restauro,
interrompendo la muratura di tufo giallo.
L'interno - tre navate con transetto ed abside poligonale - recupera una
tipologia gotica presente in altre chiese angioine a Napoli. Ma la
spazialità originaria, in cui anche le coperture (capriate lignee sul transetto
e sulla navata centrale ed archi ad ogiva su quelle laterali) contribuiscono a
creare un modello architettonico (notare la sostanziale somiglianza con il
Duomo), risulta
compromessa non tanto dagli interventi barocchi quanto dal restauro ottocentesco
operato da Federico
Travaglini (1850-53)
il quale qui propose un gusto neogotico molto diffuso in quegli anni in Europa.
Alla trasforma-
zione delle coperture seguì un rivestimento delle pareti con stucchi colorati
(fasce grigie e rosa) ed una doratura degli archi acuti e dei capitelli dei
pilastri, ottenendo un cromatismo violento e lontano da ogni suggestione gotica.
Precedentemente (1640-46) Cosimo Fanzago aveva realizzato l'altare (restaurato nel 1695),
la balaustra e le cattedre marmoree addossate ai pilastri ai lati dell'altare;
tutto lo spazio absidale, dopo la sistemazione dell'organo (1751) e del
coro ligneo in radica di noce (1752) presenta, ormai, un'impronta
decisamente barocca. Ma, riprendendo la visita dall'ingresso, alla destra di
questo ammiriamo la bella cappella Carafa (opera
rinascimentale di Romolo
Balsimelli) mentre, lungo
la navata di destra, la prima cappella conserva una tela di Francesco Solimena (Vergine
circondata da santi domenicani, 1730), ma è quella successiva (cappella
Brancaccio)
che merita particolare attenzione. Completamente affrescata da Pietro
Cavallini
(1309) la cappella dà l'idea di come si
presentava la chiesa nel Trecento.
Nelle cappelle successive ammiriamo opere di Pacecco de Rosa, Marco
Pino e Teodoro
d'Errico (quarta
cappella), mentre la cappella
del Crocifisso forma
un ambiente a sé stante con i dipinti di notevole importanza e monumenti
funebri cinquecenteschi. Fra questi va ricordato quello di Caterinella Orsini e
Placido di Sangro (opera di Tommaso
Malvito) e quello di
Ferdinando Carafa attribuito allo stesso autore. Nella cappellina dei Carafa di Andria
esiste un bel presepe di Pietro Belverte
mentre sull'altare maggiore del cappellone la tavola del Cristo in croce (opera
di incerta attribuzione) è legata alla tradizione secondo la quale il Cristo
raffigurato avrebbe parlato a S.Tommaso d'Aquino
il quale in questo convento dimorò, insegnando in questa università dove
compose la terza parte della sua Summa Theologiae.
La sagrestia è uno splendido ambiente con il soffitto affrescato dal Solimena.
Sopra gli armadi, su di un ballatoio, sono disposti in due ordini 45 feretri
contenenti le spoglie di personaggi per lo più legati alla corte aragonese. Dal
transetto destro si accede agli ambienti corrispondenti alla primitiva chiesa di
S.
Angelo a Morfisa della
quale però, per i successivi interventi anche in epoca barocca, è difficile
stabilire la struttura e la planimetria originarie.
Ritornati nel transetto ecco nella cappella più vicina all'altare maggiore due
tele di Luca
Giordano (S.
Tommaso d'Aquino e S. Vincenzo Ferreri).
Dell'altare abbiamo già parlato; occorre però ricordare il celebre Candelabro
pasquale con le Virtù, opera di Tino di Camaino.
La cappella successiva custodiva, fino a qualche anno fa, la celebre
Flagellazione del Caravaggio
oggi a Capodimonte,
mentre è ancora possibile vedere la copia(Vedi
foto) che del celebre
quadro realizzò Andrea
Vaccaro
nel XVII secolo.
Usciamo nella vicina piazza scendendo, per una scala sotto l'altare maggiore,
nella bella cripta ottagonale un tempo tutta affrescata dal Solimena.
Sulla strada il paramento di mattoni dell'abside poligonale inquadra un bel
portale marmoreo cinquecentesco. Sulla vicina scala, della quale abbiamo già
detto, un pregevole portale marmoreo rimanda ad un analogo esempio presente
sulla facciata della chiesa di S.
Agostino a Montepulciano
od anche al coronamento mistilineo con il quale si conclude il monumento del
cardinale Brancaccio (opera di Donatello
e Michelozzo)
nella vicina chiesa di S.
Angelo a Nilo. Un
balcone marmoreo, con accesso dalla cappella del cardinale Spinelli, partecipa
all'arredo di questa bella piazza le cui quinte sono formate, oltre che
dall'abside della chiesa, dai Palazzi
Petrucci (con scala
catalana), Casacalenda
(opera di Vanvitelli
e Gioffredo),
Corigliano
e Palazzo
Sangro con il bel
portale di Bartolomeo
Picchiatti
(1621). Al centro della piazza si eleva la guglia in marmo eretta dopo la
peste del 1656 su progetto di Francesco
Antonio Picchiatti e
terminata nel 1737 da Domenico
Antonio Vaccaro.